La comunità ai tempi del coronavirus

“A raccontarlo oggi, non sembra neanche vero”: dice de Gregori in una sua famosa canzone ed è proprio la situazione che provo ora nel raccontare del cosiddetto lock-down per l’emergenza coronavirus.
La prima domanda che come educatori ci siamo posti è stata: come facciamo a tenerli “chiusi”? domanda paradossale per una Comunità Terapeutica, che per definizione dovrebbe tenere ben custoditi, controllati e senza contatti con l’esterno i propri utenti, ma molto seria invece per una Comunità come la nostra che fa del contatto con l’esterno e la risocializzazione la sua ragion d’essere; non che in passato non ci sia capitato di tener chiuso qualcuno: diciamo in riflessione dopo una violazione alle regole della comunità, ma così tutti insieme mai, del resto quando mai si è vista un’intera nazione chiusa in casa, ma sapete una Comunità di reinserimento per soggetti che hanno un problema di dipendenza patologica non è di per se stessa una situazione “ normale”, se a questo aggiungiamo che la nostra struttura, come dicevo prima, è un po’ particolare occupandosi di risocializzazione, di inserimento lavorativo e di attività che si svolgono tutte all’esterno potete ben capire la nostra preoccupazione di educatori sull’impatto che potesse avere sugli utenti il diktat: “niente più uscite, nessuna possibilità di poter vedere fidanzate, figli e congiunti”. Tutti, 24 ore sempre insieme dove chiaramente si temeva un acuirsi di situazioni conflittuali già in essere, e in ogni caso anche laddove non ci fossero stati particolari antipatie, solo il fatto della convivenza stretta poteva favorire qualche schermaglia.

Tutte queste premesse potevano portare a prevedere un nefasto epilogo o perlomeno a una difficile gestione del periodo di arresti domiciliari, che la sentenza provocata dal virus aveva messo in atto e che oltretutto non aveva una data certa di conclusione.
E invece, come nelle più classiche delle paure infondate, il periodo è stato vissuto all’interno della Comunità con una serenità al di sopra di ogni possibile previsione, sì è creata, secondo me, una strana solidarietà di gruppo assolutamente non prevedibile e che di certo non vi era prima del lock-down.
Si respirava nell’aria una sorta di tranquillità agitata, ossimero che spiega il clima presente: in bilico tra una calma di fondo e una certa preoccupazione sia del contagio che del futuro.
Ma tutto ciò non ha causato particolari nervosismi o conflitti, anzi ha reso il gruppo un po’ più unito sia al proprio interno che con noi educatori: ci si vedeva in qualche modo sulla stessa barca, uniti nella stessa preoccupazione del futuro.
Credo che questa situazione ci abbia reso un po’ tutti più “ uguali” al di là della divisione educatori/utenti, un po’ tutti accomunati dalle stesse preoccupazioni, favorendo maggiormente quell’empatia che la relazione di aiuto deve avere.
Questo periodo ha fatto un pò capire a tutti che nei momenti di difficoltà gli uomini hanno una particolare propensione a restare più uniti e coesi, questo non so se ha una spiegazione antropologica o psicologica o forse entrambe, so solo che quello che abbiamo vissuto ha creato da una situazione negativa un momento in qualche modo anche positivo, facendo riscoprire quei valori che sono iscritti dentro all’anima di ogni uomo al di là dei suoi problemi dei suoi vissuti o della sua estrazione socio/economica.

Stefano